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ZELDA BOMBA

Vorrei che l’arte facesse parte del quotidiano quanto un TG o un caffè al bar; una cosa democratica, accessibile a tutti, a portata di mano.

Cosa c’è dietro il nome Zelda Bomba?

Senza mai rifletterci più di tanto, avere uno pseudonimo mi è sempre apparso una cosa ovvia. Non sarei mai entrata nel mondo dell’arte con il mio vero nome, credo. Un po’ per timidezza, quando ero più giovane volevo un po’ nascondermi. 

Zelda è un nome che mi era sembrato energico, non c’entra niente col gioco, che manco conoscevo e che non fa parte della mia cultura. Bomba l’ho aggiunto quando è arrivato internet, quando ho dovuto crearmi un indirizzo e-mail. Bomba perché era il periodo esplosivo dopo l’11 settembre, mi è venuto così, era l’aria che si respirava. Alla fine è tutto avvenuto un po’ per caso, senza darci troppo peso, ma questo nome tuttora mi corrisponde…

 

Quando e perché hai iniziato a fare arte (pubblica)? Quali sono le tue fonti d’ispirazione?

L’arte pubblica mi ha sempre attratta tantissimo. Il primo libro che ho comprato con i miei risparmi è stato Spray Can Art. Mi affascinava. Ho avuto anche tanti amici writers che accompagnavo a Roma quando andavano a dipingere, ma io guardavo. Diciamo che non ho mai preso in mano le bombolette, dipingo a pennello, che è una cosa molto più lunga, quindi ho aspettato la possibilità di aver muri legali per far grandi muri per strada. Forse nel 2012? 

Ho sviluppato poi la mia arte pubblica sotto forma di collage, che mi corrispondono di più perché posso svilupparli quanto voglio nel mio studio e poi andar in giro ad attaccarli dove voglio.

Per me si tratta di un modo per incontrare gente attorno all’arte in maniera diversa. Quando lavoro a Belleville a Parigi, so che la gente che vedrà il mio lavoro è una moltitudine molto varia e molto diversa dalla gente che si incontra in galleria. Quindi, non solo è un modo di comunicare arte in maniera più democratica, ma mi costringe anche ad adattare il mio lavoro per rivolgermi a gente diversa, bambini, gente non abituata magari ad andar nei musei. È un modo per creare una bolla di colore e spero di piacere a chi incrocia un mio collage sul suo cammino attraverso la città. Ovviamente è anche un modo di appropriarsi della città inquinata dalla pubblicità.

 

Come definiresti l’ “arte urbana”?

Per me è un modo per far esistere l’arte gratuita, per tutti, in città mangiate dal privato. Chiunque lo può fare, e tutti i messaggi sono esprimibili per strada. 

Per gli artisti è una maniera di investire la città che diventa un terreno d’avventura (cercando nuovi terreni di espressione ho scoperto delle zone di Parigi che non conoscevo affatto) e anche di ispirazione.

L’arte può quindi far parte del quotidiano della gente, in maniera semplice, chiunque se ne può appropriare, includerla nella propria visione della città. Può creare emulazione.

Quando ero bambina ero molto colpita dagli stencil che vedevo in giro, erano pochi all’epoca, ma mi intrigavano; mi sembravano veramente una cosa ispirante, quasi misteriosa nel suo fioccare nella notte, senza rumore.

Ripensare la città con arte e natura mi sembra una cosa necessaria, sempre di più…

 

L’arte urbana, le gallerie e le istituzioni artistiche tradizionali sono reciprocamente contraddittorie o è attesa da tempo un più ampio riconoscimento del movimento della street art da parte del mercato dell’arte tradizionale?

Devo dire che mi sono allontanata da queste riflessioni, anche se ovviamente fanno parte della street art. Non capisco bene come si possa articolare il maniera armoniosa il dialogo tra gallerie e street art. Immagino che dipenda anche dagli attori sul campo. Tutto quello che ha una matrice opportunistica non è di qualità, secondo me. Personalmente mi sono allontanata da certe realtà di questo tipo, continuando il mio lavoro per strada senza legarmi ad istituzioni o gallerie.

Ma è anche vero che ci sono dei progetti, anche legati a gallerie, che sono ambiziosi e di qualità. Come avviene nel XIII° arrondissement di Parigi con la Tour 13, un palazzo investito da tanti artisti di qualità, diventato museo effimero prima della distruzione, oppure le facciate dei palazzi lungo il percorso della linea 6 della metro aerea che offrono un museo a cielo aperto ai viaggiatori.

Ho anche partecipato all’Upfest di Bristol, che è una vera festa popolare; partecipa praticamente tutta la città, mi piace molto, è una condivisione vera.

 

Ci sono differenze tra le opere e i tuoi messaggi che lasci per strada e, ad esempio, le tue illustrazioni e le tue opere sulla carta?

Sì, sono due cose diverse ed è proprio questo che mi interessa. Il lavoro di pittura che svolgo da anni, nel mio studio, è molto autoreferenziale, molto ossessivo; è una ricerca personale che porto avanti da anni. 

Per strada cerco di utilizzare altri riferimenti, di parlare alla gente più che a me stessa, di comunicare. Utilizzo anche un codice colore rosso e blu (che è quello della segnaletica stradale). Per strada cerco di rappresentare la strada, uomini, donne, provenienti da tutte le parti del mondo come si vede in effetti a Parigi, e poi a volte faccio intervenire icone della cultura popolare come Bruce Lee, Spike Lee, Malcolm X, Kim Jong-un, Twiggy e molti altri. Questo può essere un omaggio o anche qualcosa per far sorridere la gente.

 

Puoi descrivere il tuo processo di lavoro? Quanto tempo dedichi ad una opera?

Questo dipende… Utilizzo vari modi per lavorare per strada: un metodo diciamo più warholiano è quello di creare un visual (su cartone alimentare) e poi riprodurlo a volontà per incollarlo. Per questo magari mi servono 5 ore. Se faccio un grande dipinto su carta da pacchi, sempre da attaccare, magari ci lavoro due giorni (sono veloce ma non faccio altro, perciò sono comunque ore di lavoro).

Per i miei dipinti non destinati alla strada uguale, due/tre giorni.

Il mio processo di lavoro è in studio, da sola, con podcast prescelti, immersione totale finché non ho finito. Lavoro con l’acrilico, su carta e da poco anche su legno. 

È una propria necessità dipingere, che non sparisce con tempo, anzi. Per me è una ricerca, e sempre la ricerca di un evoluzione…

 

Hai uno stile straordinario, che è radicato nella controcultura, nei fumetti, nella musica, nella moda e nella vita di strada, con un forte valore di riconoscimento e una vivace tavolozza di colori. Come hai sviluppato il tuo stile unico e quale messaggio vuoi trasmettere con la tua arte?

Lo sviluppo è semplice: lavorare. Ho preso la decisione di non far altro praticamente, e quindi lo stile si sviluppa naturalmente. Ovviamente lo devi nutrire, e questo avviene attraverso letture, incontri, altri artisti, film, cultura in generale che molto spesso ti ispirano in maniera inconsapevole. La voglia di fare e di trovare nuove soluzioni creative è comunque per me il motore più potente.

Il messaggio… Non ho un messaggio poiché ho scoperto che se una persona vuole vedere un messaggio in quello che fai, quel messaggio appartiene più a lei che a te. Oppure è un’alchimia diciamo, tra quello che produci tu e come viene percepito da quella persona in particolare. Nessuno percepisce un’opera nella stessa maniera.

Ma forse, se avessi un messaggio sarebbe quello di spronare la gente ad utilizzare la propria creatività, in qualsiasi modo, di tenere viva questa parte che assolutamente tutti abbiamo. Mi capita spesso, quando faccio workshop con delle persone del tutto estranee alla creatività di sentire “non so far nulla”, per poi vedere alla fine del corso che tutti sono riusciti a creare, anche in maniera inaspettata, ricca, il che è una cosa estremamente valorizzante di cui tutti hanno bisogno. Sono assolutamente per lo sviluppo di queste possibilità sepolte in tutti; fanno bene, creano una maniera diversa di vedere la vita, di vedere sé stessi, rende la gente felice. È molto importante.

 

Quale rapporto vuoi creare con gli spettatori delle tue opere?

Emulazione forse. Vorrei che l’arte facesse parte del quotidiano quanto un TG o un caffè al bar; una cosa democratica, accessibile a tutti, a portata di mano. Possiamo tutti essere un po’ artisti, tutti lo possiamo essere anche solo dieci minuti al giorno… La street art può essere questo, incrociare per strada andando al lavoro un disegno, che è stato fatto lì proprio per te, distrarti un attimo dai tuoi pensieri… Bisogna rompere la distanza tra le persone e la propria creatività.

 

C’è un motivo per cui dipingi principalmente figure femminili?

Le figure femminili sono soprattutto presenti nel mio lavoro di pittura non destinato alla strada. Sì, siccome interrogo molto il concetto di identità, ovviamente, parto da una delle mie identità personali, che è femminile. 

La costruzione sociale della femminilità offre poi delle possibilità creative infinite nella sua rappresentazione, che si avvicina anche al queer.

Per strada inconsapevolmente creo più uomini, mi sono interrogata su questo fatto… Senza trovare risposte, a parte che è uno specchio obiettivo della realtà.

 

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Zelda Bomba

Tours / Paris, France

www.zeldabomba.com

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Novembre 2019