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ELISABETTA RICCIO

La mia idea di spazio urbano è quella di una pianta che perde continuamente vecchie foglie per farne nascere di nuove; la mia  fotografia documenta la sua trasformazione con rigore, intimità, e sentimento.

Sei una fotografa freelance e catturi luoghi e scene incredibili in tutto il mondo. Puoi dirci di più sul tuo background e sulla tua vita artistica?

Molto volentieri. Mi sono laureata  al politecnico di Torino all’età di 23 anni mentre seguivo il master serale di fotografia allo IED. Amavo moltissimo l’architettura e il Design ma fin da piccola mi ero legata in qualche modo alla fotografia. Non ricordo come sono entrata in possesso a nove anni della mia prima macchina fotografica, ma ricordo che ogni estate al mare macinavo rullini su rullini. Il momento più bello era quello in cui prendevo la  bicicletta per raggiungere il comune a fianco al mio, e ritirare le fotografie sviluppate.. diciamo che è iniziato così il mio rapporto con la fotografia. Allora non pensavo che potesse diventare un lavoro…

Poi durante l’università, ho iniziato a fare vari lavoretti per poter viaggiare… Malesia Indonesia Cuba Repubblica Dominicana, scoprire il mondo era diventata per me una specie di missione mentre la fotografia, il mio mezzo di espressione, di elaborazione delle esperienze, la mia fedele compagna di viaggio. Così una volta laureata, ho iniziato a lavorare come fotografa. Prima assistente in uno studio poi fotografa della scena musicale e underground di Torino, ho proseguito il discorso iniziato all’università sulla documentazione di spazi ed edifici industriali abbandonati, per poi concentrarmi parallelamente su progetti più intimi di reportage come  “Calle Cuba” o “CLAUSUS” un racconto sulla vita di clausura di un gruppo di suore di Revigliasco. Nel 2012 ho iniziato a seguire la street art e con diversi artisti ho iniziato a viaggiare tra america e centro america fino a trasferirmi per diversi mesi a New York nel 2016.

 

Vedi il tuo ruolo di fotografa più simile a quello di una documentatrice, una narratrice o un artista?

Bella domanda. Sono molto affezionata a una frase di Oscar Wilde che dice “definire è limitare”. Infatti non mi è mai piaciuto identificarmi in un solo di questi aggettivi…

Diciamo che la mia “missione” nella fotografia è quella di raccontare storie. Storie di persone, di luoghi, di resilienza, di memoria. Spazio da progetti più narrativi, ad altri più artistici dove mescolo diverse tecniche di stampa, esperimenti in ferrotipia, manipolazioni polaroid, e l’uso della doppia esposizione.

 

 

Cos’è, cosa ti affascina della scena urbana e suburbana. Quando e come sei entrata in contatto con la scena della street art?

La città ha sempre esercitato un gran fascino su di me. Da buon architetto sono affascinata dalla trasformazione dello spazio urbano. I muri, le strade, le luci delle città hanno un sacco da raccontare.

La mia è una costante indagine sulla mutevolezza dell’architettura di quelle aree urbane che sono state vissute dall’uomo e poi abbandonate..

E’ proprio durante la mia tesi sulla riqualificazione di ex zone industriali di Torino che ho iniziato ad scattare fabbriche abbandonate, città nascoste, borghi dimenticati dal Piemonte fino oltre oceano. Poi, nel 2012 ho avuto l’opportunità di seguire  alcuni artisti italiani in viaggio negli Stati Uniti, ed è così che ho iniziato a documentare festival di street art e progetti di riqualificazione urbana attraverso l’arte. Ho fotografato il lavoro di artisti di fama internazionale tra cui Vhils, Faith 47, Evoca1Alexis Diaz , Axel Void, 2501 e tanti altri.

Negli anni 2014 e 2017 hai viaggiato e lavorato insieme ad artisti di strada internazionali tra America e Asia. Com’è stata questa esperienza per te? E come è stato il tuo modo di lavorare insieme agli artisti?

E’ stata una bellissima esperienza. Sono riuscita a conciliare la mia voglia di viaggiare ed esplorare con l’approfondimento di un nuovo mondo, come quello della street art, per me, allora,  tutto da scoprire. 

Fotografia e street art vanno abbastanza a braccetto. 

Molto spesso gli artisti dipingono opere in mezzo al nulla e attraverso la fotografia riescono a mostrare la loro opera a tutto il mondo. Nei mie viaggi con loro, ho cercato di raccontare e restituire, con intensità e verità, il rapporto che si crea  tra l’intervento artistico e le comunità locali coinvolte.

L’aspetto che più mi interessa e affascina della street art  è vedere come l’arte possa diventare un mezzo di riqualificazione urbana, fruibile gratuitamente da un illimitato numero di persone senza limiti di spazio, trasformando così i muri delle città in un museo a cielo aperto. Spesso quello che viene dipinto sui muri sono messaggi sociali, politici e questo li rende ancora più interessanti. 

Ho seguito diversi festival da Puerto Rico, a Lisbona, Arizona e Sarasota. Ho scoperto Miami Art Basel, fiera internazionale dell’arte, che è diventata poi per me una tappa fissa dove ho esposto per due anni di fila il mio progetto sul MIAMI MARINA STADIUM, stadio marino abbandonato diventato la tela di numerosissimi artisti di fama mondiale.

Nel 2014 ho avuto anche l’onore di documentare il primo festival di street art “ARTESANO PROJECT” organizzato dall’artista EVOCA 1 in Repubblica Dominicana.

E’ stato bello lavorare con tutti gli artisti coinvolti perché mentre ognuno di loro era impegnato a portare un messaggio sui muri di questo paesino, io mi occupavo di documentare e indagare come la comunità interagiva con quello che stava accadendo.  Intervistavo le persone, passavo del tempo con loro, documentavo l’opera di ogni artista protagonista e realizzavo loro dei ritratti.

Hai esplorato paesaggi urbani di forme molto diverse, ad esempio aree industriali abbandonate in auto-trasformazione per la tua prima serie IDENTITY, spostandoti da luoghi metropolitani e sociali per RES.TI.TU.ZIO.NE o la indagine fotografica della Navajo Nation per serie IN THE MIDDLE OF NOWHERE. Quali differenze o somiglianze culturali hai scoperto in termini di urbanità, vita urbana e arte urbana?

In realtà mi sono resa conto che c’è molta più somiglianza di quanto potessi immaginare. Nella mia fanzine ATYPICAL si percepisce molto… E’ il riassunto di 10 anni di esplorazioni tra Messico, Francia, Israele, Italia, Arizona, Repubblica Dominicana e Cuba e tutti questi  luoghi così lontani e diversi sono invece molto simili tra loro… c’è una sorta di continuità tra un paesaggio e l’altro. 

La mia idea di spazio urbano è quella di un pianta che perde continuamente vecchie foglie per farne nascere di nuove;  la mia  fotografia documenta la sua trasformazione con rigore,  intimità, e sentimento.

In tutti i luoghi che ho raccontato ho sempre cercato di tirarne fuori la loro più profonda essenza, connettermi con quello che stavo vivendo per scavare in profondità  alla ricerca di quei messaggi nascosti.. 

Dal villaggio abbandonato nella laguna di bacalar in Messico, agli edifici abbandonati del comune di Boscotrecase vicino Napoli, dallo Stadio Marino abbandonato a Miami ai cotonifici in disuso di Robassomero in Piemonte, dai teatri abbandonati in Repubblica Dominicana alla mobile house dei Navajo in Arizona.

In ogni spazio, edificio, villaggio fotografato ho sempre trovato  quelle somiglianze che ti facevano percepire un senso di familiarità… nella fanzine infatti Cuba sembra uno scorcio di Napoli, una stazione ferroviaria a Troy (NY) sembra il cotonificio di Robassomero in Piemonte e via dicendo…

 

Quali reazioni vuoi creare con gli spettatori dei tuoi lavori? Quali messaggi vuoi trasmettere con le tue foto?

Vorrei portare lo spettatore a raggiungere un senso di stupore, empatizzare con i luoghi e le persone che ho ritratto e condurlo a riflettere su temi quali la memoria, il rapporto che l’uomo ha con la terra e indagare sulle conseguenze che le nostre azioni hanno sul nostro pianeta.

Quali sono i tuoi progetti, temi o luoghi futuri che vorresti incontrare?

Ho viaggiato per tanti anni interessata ad esplorare culture diverse dalle mie, ma durante il lockdown di Marzo ho sentito la necessità di fare ricerca sul mio territorio e riscoprirlo. Vorrei realizzare un lavoro specifico su Napoli, terra natale di mio padre.

Il rapporto con la Terra, la memoria, la resilienza saranno i temi dei miei prossimi progetti. Nel mentre ho già in cantiere una nuova fanzine ad edizione limitata.

Mi piace collezionare libri fotografici, sono una grande fan della stampa, e uno dei miei sogni è realizzarne uno primo o poi.

Design, editing , stampa, matericità della carta, composizione si fondono insieme per dare vita ad una storia.

Realizzare ATYPICAL , anche se non è un libro ma una fanzine, mi ha stimolato tantissimo. L’impaginazione,  la scelta degli inserti e della carta , la fase di progettazione, seguire il processo di stampa in letterpress con i ragazzi di Archivio Tipografico e scrivere il testo con Claudia de Giorgis  è stata davvero un’esperienza unica. Non vedo l’ora di lavorare al prossimo progetto!

A-TYPICAL. Presentata ad Unlock Book Fair – Modena e messa in mostra a Funzilla Fest – Roma.

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Elisabetta Riccio

Torino, Italia

www.elisabettariccio.com

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Gennaio 2021