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GOLA HUNDUN I/II

Intervista con il pittore e muralista italiano Gola Hundun:

Il mio desiderio non è solo di fare riflettere, ma anche di incitare ad avere una posizione attiva, reattiva, operare scelte coscienti per il presente e per il futuro. Mi riferisco, a questo riguardo, allo smettere di essere consumatori passivi del mondo reale o al fare la propria parte nel ciclo del dare/prendere.

Sei un artista e muralista e il tuo lavoro si concentra sul rapporto tra gli esseri umani e la biosfera, come la comunicazione interspecie, lo sciamanesimo, l’ecologia, il vegetarianesimo e la spiritualità. Quali messaggi vuoi trasmettere? Quali tecniche e media utilizzi per visualizzare queste relazioni? 

Per me è fondamentale che la spinta alla creazione di un nuovo lavoro nasca dal desiderio di comunicazione e da un invito alla riflessione, anche se a volte il mio linguaggio risulta un po’ criptico. L’intento è di far riflettere il singolo rispetto alla sua posizione nei confronti del benessere offerto dalla società contemporanea, di interrogarsi su cosa sia effettivamente il benessere, il comfort e il prezzo che si paga per averlo in termini di libertà personale, lucidità mentale e, soprattutto, il costo che deve pagare il sistema-pianeta. 

È dunque una spinta a riflettere sul fatto che noi umani abbiamo creato il nostro mondo – la città – parallelo al mondo naturale, che però è regolato da leggi diverse. Il mondo della Natura è visto infatti come bacino di risorse, momento di svago dal primo e poco altro, tant’è vero che la maggior parte di noi è incapace di fare ritorno al mondo naturale e considerarlo come habitat; anzi, lo identifica come alieno. Io chiamo il mondo naturale: Mondo Reale.

Foto di Diana Larrea

Il tentativo del mio lavoro è di spronare le coscienze dei miei simili in merito a questa separazione che da tempi ormai remoti grava sul sistema umano (oggi catalizzata ulteriormente dalla creazione del mondo virtuale di internet in cui passiamo buona parte della giornata). Essa è inoltre la ragione principale della mancanza di empatia da parte di noi umani nei confronti degli altri animali, delle piante e di tutto ciò che esiste al di fuori di noi nonché la mancata consapevolezza delle relazioni di interdipendenza che esistono tra tutti gli esseri viventi.

Il mio desiderio non è solo di fare riflettere, ma anche di incitare ad avere una posizione attiva, reattiva, operare scelte coscienti per il presente e per il futuro. Mi riferisco, a questo riguardo, allo smettere di essere consumatori passivi del mondo reale o al fare la propria parte nel ciclo del dare/prendere. Così cerco di vivere anche io stesso, il mio approccio al fare è esplorativo, cerco di mutare il mio segno così come mi trasformo nei giorni, negli anni. A livello di media, di tecniche, mi piace spaziare, sperimentare linguaggi, superfici e forme per come mi si presentano nel percorso e come penso sia più efficace.

Hai frequentato il liceo artistico di Ravenna per la formazione artistica classica e poi ti sei laureato in Belle Arti all’Accademia di Bologna. Dopo gli studi, nel 2004, ti sei trasferito a Barcellona, hai viaggiato per il mondo e hai portato la tua carriera artistica a livello globale. Cosa ti ha spinto a tornare nel tuo Paese d’origine, a voltare le spalle alle gallerie e all’affermato mondo dell’arte e a uscire nella natura? 

Di certo, passare quotidianamente il mio tempo a contatto con la natura e all’avventura è stato sempre necessario per il mio equilibrio e la mia ispirazione, a volte anche solo nella fantasia. Tuttavia, non penso di aver reciso il legame con il mondo delle gallerie, le considero come un portale. A volte è una comunicazione difficile, lo ammetto. In effetti, sto aspettando che si presenti il giusto interlocutore, la giusta galleria per creare insieme un dialogo duraturo e capace di catalizzare la mia ricerca. È un tipo di connubio che con i mezzi di comunicazione a nostra disposizione oggi potrebbe potenzialmente essere sviluppato da qualsiasi parte del globo, forse anche per questo ho scelto di ritornare nelle mie terre d’origine. Per quanto mi piaccia il movimento e lo stimolo della moltitudine, credo che la vita in città sia aggressiva e, alla lunga,  alienante. Avevo iniziato a sentirmi oppresso anche in una città piccola e divertente come Barcellona (anche per motivi sentimentali…). Sono cresciuto in un piccolo paese di mare. Il dinamismo per me è fondamentale, così come l’acqua, lo spazio, le brevi distanze. In questo momento sto scrivendo da una piccola casetta vicino a un bosco, che mi permette di avere un contatto quotidiano con la natura, oltre a offrirmi un banco di prova per certi esperimenti con piante, sculture nido etc. Un altro motivo forte che mi ha fatto tornare è il mio nuovo progetto artistico per il quale sapevo che qui avrei potuto muovermi meglio sia per la rete di lavoro (musicisti, videomaker, fotografi) che per gli elementi di investigazione (i ruderi ricolonizzati dalla natura). Il progetto si chiama Habitat e merita un approfondimento a parte. Tutto ciò premesso, non vedo l’ora di tornare a viaggiare di nuovo!

Barcellona è stata anche la città che ha riportato le influenze dei graffiti nel tuo lavoro e dove hai deciso di riportare le tue creazioni sui muri della strada. Qual è stato l’impulso? Perché hai scelto lo spazio pubblico come ambiente di lavoro ed espositivo?  

Come tutte le grandi scoperte e avventure, è iniziato tutto in modo casuale. Ci sono finito dentro come in un ballo euforico e trascinante. Una volta dentro, ho capito le sue potenzialità. Quella scena che aveva iniziato a chiamarsi Street Art era molto diversa da quello che è oggi e nella specificità di Barcellona, poi, era una condivisione esaltante e sperimentazione libera. È stato facile fare quella scelta, l’incontro con Pyu ex ONG Crew è stato il mio vettore d’immersione.

Lavorare nel mondo reale, nello spazio fisico, aveva (e continua ad avere) un senso sociale: ti permette di avere un incontro diretto con tipologie umane di fruizione tra le più disparate quindi non strettamente con gli “addetti ai lavori”. Era emozionante e aveva un potere comunicativo molto superiore; in più, ogni volta era (ed è) un’avventura che partiva dall’andare a fare e arrivava all’incontrare e condividere. Con il passare del tempo, lo spazio del reale e i suoi abitanti hanno assunto un ruolo sempre più importante nella mia poetica.

Ti descriveresti come urban artist o come land artist? Vedi una netta separazione tra le due cose? 

Osservando gli ultimi anni della passata decade, mi sono fatto l’idea che ci sia una sotto tendenza che vuole far convergere questi campi e io sento di far parte di questo movimento. Personalmente, già dalle mie prime produzioni più o meno selvagge nello spazio pubblico, ho cercato timidamente di ibridare il muralismo con l’installazione e poi la land art. Si tratta di pezzi che ho molto a cuore per il loro carattere coraggioso e un po’ irriverente ma che non sono purtroppo tra i più conosciuti nella mia produzione, forse anche per via della documentazione e diffusione non troppo accurata di quegli anni, ihih. Per esempio, mi viene in mente il progetto Cappix del 2006, le murate con i coriandoli o con parti consistenti che uscivano in terza dimensione dalla parete a volte generando spazi camminabili come quella del mitico INFART III, uno dei migliori festival a cui abbia a oggi partecipato. Da lì ho continuato a sperimentare questa ibridazione, seppure in maniera discontinua. Oggi per me il lato installativo/landartista, oltre ad avere la sua ragione estetica, ha sempre più la funzione di aiutarmi a generare degli spazi, dei micromondi, che possono essere utilizzati da altre specie come rifugio, sostentamento o fruite in altra maniera (soprattutto nei lavori all’interno della urbanità) per incrementare ulteriormente il senso del mio lavoro, che è quello della coesistenza e condivisione, dell’abbattimento della frontiera tra lo spazio umano e quello non umano.

Il tuo lavoro contiene sempre un’interpretazione allegorica e combina una varietà di influenze diverse come la cultura post umana, l’arte sacra, la zoologia e l’arte psichedelica. Quali sono le tue fonti di ispirazione? Ci sono altri artisti che ti ispirano?

Il tentativo di rispondere a questa domanda è sempre molto difficile per me. Sono tanto affascinato da maestri che investigano campi simili, quanto da altri le cui risposte e i cui campi totalmente opposti. Mi stimola molto il senso di assoluto e amorfo di Burri o dell’amico 108, quanto la poetica di Hundertwasser, la luce di Turner (che vorrei tanto rivedere di nuovo), i mondi di Hieronymus Bosch. Ho grande rispetto per il lavoro di Waone e Aek ex Interesni Kazki, il maestro Blu (forse primo contatto forte e stimolante con l’arte della strada nel 2000 durante il periodo di studi a Bologna). 

Quando si parla di fonti d’ispirazione, non posso non menzionare l’irresistibile fascino per l’arte rupestre di tutto il mondo e per ciò che essa rappresenta (ovvero un mondo in cui non c’era ancora distinzione fra animali, uomini, alberi, spiriti, un mondo animico dove gli esseri potevano trasformarsi e non si sapeva mai se si trattasse di un dio, una roccia o un essere umano). Penso anche ai monili di quel mondo fatti di materiali che appartengono alla terra, penso alle soluzioni dei popoli celti per i quali il bosco era casa e tempio e al mondo nomade primitivo ancestrale e alle forme del primitivismo. Primitivismo che diventa futuristico nei lavori di Tissue Culture and Art (seppur ho perso un po’ la loro pista ultimamente)… e ancora le forme e le forze delle architetture e le pitture dei luoghi di culto, i pozzi nuragici, i templi induisti, le chiese abbandonate, le cattedrali sontuose, fino ai disegni di sviluppatori di videogames sognanti come Another World o Journey, gli scritti di Gilles Clément e ovviamente la musica… la musica, sì la musica… ma questa è un’altra storia… fare musica mi manca, spero sempre di ricominciare… forse quest’anno ne avrò l’opportunità.

Con il tuo lavoro hai sperimentato e osservato, per più di un decennio, il complicato rapporto degli esseri umani con la terra. Quali sono le intuizioni che puoi condividere con noi? Qual è la tua personale visione del rapporto tra l’uomo e tra l’uomo e la biosfera?

Avverto che nell’era della globalizzazione che stiamo vivendo, il sistema è riuscito a inculcare gli stessi bisogni acquisitivi a tutti gli abitanti del pianeta, e lo ha fatto in maniera capillare, dal cittadino della megalopoli del “primo mondo” al nomade della savana. Allo stesso modo, la cultura popolare si è molto massificata con l’arma a doppio taglio dei social network che hanno fatto fluire molte informazioni là dove non sarebbero arrivate altrimenti, influenzando al contempo lo status symbol e la figura di vincente nella società, appiattendone i canoni, soprattutto nelle nuove generazioni in cui la forbice si apre sempre di più tra la super sensibilità magari introversa e totale superficialità. Lo sappiamo, la sete di comfort è ciò su cui si basa l’economia globale, e grava tanto sulle vecchie generazioni quanto sui millennials. Questo tsunami, a mio parere, ha investito tutto senza tenere conto dell’evoluzione specifica delle differenti società (sia per struttura che cultura). Il quadro generale è che si sta distruggendo per attingere, per creare e vendere oggetti che saranno abbandonati sulla terra come scorie. È come se nei diversi continenti si stesse vivendo in tempi “evolutivi” diversi che devono rapportarsi con le imposizioni del mercato che è come un livello superiore uguale per tutti. Questo crea ancora più squilibri, ma massifica i risultati. È triste vedere che rappresentanti di culture ancestrali diverse aspirino ad essere simili a emblemi di culture più giovani e basate sulla capitalizzazione, magari le stesse che le hanno colonizzate prima con le armi e poi con i beni di consumo (ricordo questa sensazione osservando un gruppo di ragazzi quando sono stato a dipingere a Painted Desert nella riserva Navajo in Arizona). Popoli che perdono le loro radici, la loro specificità… Le società che fino a ieri vivevano a stretto contatto con la natura e ne conoscevano i movimenti, per assurdo oggi sono tra le più inquinanti perché aspirano a divenire simili ai modelli imposti dall’economia globale e tendenzialmente non valutano/conoscono gli effetti della modalità “usa e getta” che ha già prosperato nel primo mondo, dove ha già avuto un’azione devastante.

Nel cosiddetto primo mondo, a livello popolare c’è molta sensibilità al discorso della sostenibilità ecologica, sebbene le grandi fabbriche di beni usino già oggi la bandiera del bio per lavare il proprio marchio e continuare a prosperare nelle logiche di sfruttamento globale. Un bene vegano oggi non è per forza sostenibile (se lo sapessero i pitagorici!); tuttavia, le nuove generazioni, seppur nella grande confusione di questo momento di passaggio evolutivo umano, sono in generale molto informate e attente e, anche se non sono tutti attivi, sono consapevoli di vivere in un mondo non più basato sulla logica di sfruttamento del pianeta come miniera infinita. Le cose stanno cambiando ma il tempo sta finendo. Sicuramente stiamo vivendo un momento che non ha precedenti nella storia dell’uomo. Per questo è necessaria un’azione forte, congiunta e immediata da parte di tutti; un cambio di paradigma da parte di chi finora ha deciso le sorti di tutti: il sistema capitalista. Il mio sogno è di recuperare l’integrazione con il Mondo Reale com’era nelle società pagane prima dell’avvento dei grandi monoteismi e delle loro gerarchie piramidali di stampo Platonico, con le conoscenze che abbiamo oggi in campo scientifico e filosofico.

HABITAT descrive “la casa o l’ambiente naturale di un animale, una pianta o un altro organismo” o “l’ambiente abituale o preferito di una persona”. Perché hai scelto questo nome per il tuo nuovo progetto, che si è evoluto dal tuo progetto collaterale e dalla tua ricerca personale ABITARE? Di cosa si tratta?

Per habitat si intende l’ambiente naturale di un animale, in questo caso l’habitat dell’animale homo, che da più di tre millenni è la città, e la sua tana la casa, l’edificio. Il mondo occidentale è pieno di costruzioni in stato di semiabbandono. Molto spesso, l’abbattimento e lo smaltimento degli stessi richiede l’impiego di risorse notevoli, quasi sempre non sostenibili da parte della proprietà sia pubblica che privata. Il risultato di queste lunghe attese è una riappropriazione graduale, da parte della Natura, di uno spazio che le apparteneva e che di fatto torna progressivamente ad essere popolato di esseri viventi diversi dall’essere umano. Obiettivo di HABITAT è l’indagine, lo studio e la ricerca formale di tale fenomeno, letto come processo artistico naturale.

HABITAT mira a descrivere una visione della vita nello spazio antropico dopo

la fine dell’antropocene. I campi di indagine partono da un’analisi estetica supportata da documentazione fotografica e video che è continua nel tempo e non si arresta nel momento dell’intervento artistico, ma procede in concomitanza con la crescita spontanea degli elementi faunistici e vegetativi. L’intervento artistico è concepito come un piccolo segno di colore oro per sottolineare ed esaltare il carattere magico e sublime (di cui il colore oro è simbolo) del ready-made realizzato dalla stessa Natura.

GOLA HUNDUN

Rimini, Italia

golahundun.com

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Immagini © GOLA HUNDUN

 

Febbraio 2021